malattie rare

Postato in data 12 Marzo 2017 Da In Psicologia

NOVE DONNE E LE MALATTIE RARE

La festa della donna, che particolarmente non ho mai apprezzato molto in quanto mi appare più come la fiera di una razza da proteggere che una vera e propria ricorrenza, è però la splendida occasione per una fioritura sulle pagine dei giornali e sui media in genere di belle storie umane che hanno per protagoniste donne di cui è più che giusto conoscere la vita, l’esperienza e l’abnegazione quotidiana.

Sì, perché prima che storie femminili, rimangono storie profondamente umane che ribadiscono la dignità della persona: umanissima è infatti la notizia che è comparsa il 7 marzo su Repubblica.it, che racconta del team formato da nove professioniste le quali portano avanti l’ambulatorio di malattie rare presso l’Ospedale Sant’Orsola di Bologna.

In questo Padiglione 16 arrivano ogni anno oltre 2700 bambini con problemi seri e spesso inspiegabili per la scienza già nota, provenendo per il 35% da fuori regione e chiedendo aiuto, paradossalmente, soltanto a donne: quattro medici, tre infermiere, due psicologhe, e alcune addirittura non ancora con un contratto a tempo pieno garantito e solido.

La responsabile è la dottoressa Laura Mazzanti che, nell’intervista rilasciata in quell’articolo, non perde occasione di iniziare un discorso dicendo “io e le mie colleghe…“, come pure per una sorta di par condicio rovesciata, tiene a precisare che molti medici specializzandi uomini si sono affacciati ai loro corridoi, e hanno prestato servizio anche piuttosto lungo al loro fianco ma, alla fine, hanno scelto di andarsene e non rimanere in quel reparto difficile.

Accade spesso, infatti, che occorra dire a dei genitori stremati che, purtroppo, non si sa perché quel loro figlio sia in quelle condizioni così difficili e, per adesso, incurabili… Cito testualmente le parole della dottoressa Mazzanti riportate nel testo: “È difficile anche per noi… a volte siamo più che camici bianchi: parliamo con famiglie che vanno in crisi, con genitori che nei casi più estremi si separano…

Eppure, la dottoressa con estrema riservatezza ma anche con grande umiltà è pronta a rivelare anche un loro piccolo-grande segreto per sopportare tutto quel dolore da gestire e da sostenere: il loro pranzo comune del venerdì, dove tutte e nove si ritrovano davanti a un trancio di pizza in un bar lì nei pressi… Momento per fare una “strana equipe“, parlare dei casi ma soprattutto parlare di se stesse, dove dice con dolcezza la Mazzanti “perfino le psicologhe si confidano“.

Mi viene da chiedere, cosa hanno scoperto e infine applicato come regola vivente queste nove donne… Penso due cose, tra molte altre che in una esperienza umana e professionale così ricca sicuramente mi sfuggono: la prima è la certezza del fatto che se “esistono malati inguaribili, non esistono malati incurabili”, estendendo il concetto di cura a quello ben più ampio del prendersi cura.

La seconda, molto cristiana oltre che funzionale dal punto di vista professionale ed etico, è che dove esiste una vera comunità ne consegue che la qualità della vita migliora per tutti, non solo per i pazienti e familiari, ma anche per gli operatori sanitari.

Mi riallaccio infatti, con vigore, allo splendido convegno a cui ho preso parte nel gennaio 2015 dal titolo “IL DOLORE TRA ALGOS E PATHOS. PSICONCOLOGIA E GESTALT THERAPY.”, presso il Policlinico Gemelli di Roma come inaugurazione del Master universitario di secondo livello in Psiconcologia.

Qui, nelle parole della neuropsichiatra Paola Argentino Trapani, organizzatrice di questo come di molti altri percorsi simili in varie città d’Italia, dall’etimologia mostrata mi resi conto della profonda distinzione tra il concetto di “algos” (il dolore percepito e direi in un certo senso “biologico”) e “pathos” (il dolore empatico e relazionale che al primo si ricollega, come si evince anche dalle più recenti scoperte fatte dalle neuroscienze sul funzionamento del cervello umano).

E Paola Argentino, che ho avuto poi la gioia di conoscere personalmente, si riagganciava al mito greco parlando di un Algos che, nel mito, era nato da Eris (la dea della Discordia e del Conflitto) e da Ares (il dio della Guerra). Un dolore conflittuale dunque soccorso da un certo genio, il genio Peuto, che, secondo un altro mito, era giunto in ritardo alla distribuzione dei doni, avendone quindi in dote solo uno residuo e poco stimato dagli altri: il dono del pianto nel lutto, che ha da allora il compito di arrivare a purificarlo, sanando la frattura presente nell’ “inudibile” e “indicibile”, e creando finalmente un legame profondo tra dolore e vita.

Questo, diceva Paola: ” viene chiesto a chi opera di fronte alla sofferenza: aiutare la persona, come il genio Peuto, attraverso un pianto metaforico spesso, attraverso la ricostruzione di un assestamento nuovo delle varie parti del sé.”.

Allora che facciano questo anche le “nostre” nove donne del reparto di cura del Centro di Malattie rare infantili? A sentire parlare la dottoressa Mazzanti certo che sì, attraverso pure quella grande intuizione che è far comunità, ancora una volta in sintonia con le teorie che la stessa neuropsichiatra Paola Argentino richiama in altri passi delle sue pubblicazioni: l’individuazione di un modello Gestaltico Comunitario (nel gergo MGC) che, come medico psichiatra dirigente del Dipartimento di Salute Mentale di Siracusa, non solo teorizza, ma anche vive quotidianamente a contatto con colleghi e operatori vari nella cura di malati psichiatrici gravi.

E così afferma: “Il considerare l’intera comunità terapeutica come un organismo in un campo ha rivoluzionato la prospettiva terapeutica: l’oggetto di intervento non è più il paziente, ma la comunità nel suo insieme…“. Ecco perché darsi il tempo di pranzare insieme ogni venerdì: per essere un sé pieno che accoglie altri sé, per aiutarsi a passare dalla semplice cura al prendersi cura…

È così che mi sono sentita, in questa festa, di far dialogare idealmente queste due donne, la dottoressa Mazzanti di Bologna e la dottoressa Argentino di Siracusa, due medici ma anche due persone dall’operare molto affine, pur con i dovuti distinguo.

Dalle donne, dunque, un esempio vitale per tutti e una testimonianza, in questo caso femminile, fatta di “essere” e di “accoglienza”!

Chiara Gatti

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