Lettere al Direttore

Postato in data 10 Marzo 2017 Da In Lettere al Direttore

Eutanasia: opinioni a confronto

Gentile Direttore,
mi rivolgo a lei essendo venuta a conoscenza di una vicenda umana meravigliosa che è accaduta vicino alla sua città, in specifico nella vicina Modica. Tutta la recentissima e dolorosa vicenda di Dj Fabo, con il successivo immenso dibattito generale, mi ha spinto a farmi delle domande. Desidero condividere con lei qualcosa di queste mie “meditazioni” che, come ripeto, includono anche una figura penso ben nota e, credo, certo amata anche da molti ragusani.

Come riportato dai giornali, ancora mi risuona dentro profondamente il consiglio, o meglio l’accorato appello, che Matteo Nassigh, disabile gravissimo dalla nascita, rivolgeva a Dj Fabo dicendogli:  “È vero, noi due non possiamo fare niente da soli, ma possiamo pensare e il pensiero cambia il mondo. Fabo, noi siamo il cambiamento che il mondo chiede per evolvere. Tieni duro!”… Queste parole, rivolte da questo ragazzo di 19 anni al suo “amico acquisito” Fabo, per convincerlo di una bellezza del vivere, mi hanno veramente colpito e richiamato un altro “cuore pensante”: quello di Etty Hillesum, che nelle ultime pagine dei suoi Diari, scritti nel campo di deportazione di Westerbrok, nel 1943 scriveva, con un corpo debolissimo e stremato da stenti e malattia steso sulla branda della sua capanna, di essere appunto “il cuore pensante della capanna”, punto di riferimento e sostegno coraggioso per quanti non ce la facevano ad accettare la disumanità di quella condizione di limite e privazione di tutto: altri corpi limitati, funzioni paralizzate, voci spezzate. Eppure Etty pensava, parlava, compativa ed empatizzava coi suoi fratelli di “capanna”.

Infine pochi giorni fa una notizia di cronaca regionale (appunto della vostra regione Sicilia), mi ha dato l’occasione di richiamare la vicenda di Fabo per dargli un compagno in più, non un altro commentatore della sua vicenda… forse un fratello nella fede che, come lui, ha vissuto la sua sofferenza e può capirlo molto meglio di noi tutti che ci accingiamo, muniti di parole e saggezze, a dire qualcosa sul suo conto per suffragare qualche causa di principio.

Questo amico è Nino Baglieri, di cui in data 2 marzo di quest’anno  ricorreva il decennale della morte. In molti lo definiscono già il “Santo di Modica” ed  infatti di questo servo di Dio è già in atto la causa di beatificazione. Ma non propongo come amico e fratello di Dj Fabo quest’uomo santo al semplice scopo di mostrarne l’edificante e cristiana capacità di vivere la sofferenza , con una sorta di implicita e moralistica squalifica della scelta di Fabo… Vorrei invece accostarli nella struggente ricerca di felicità che li ha accomunati perché, fino a un certo punto, la loro storia assomiglia davvero.

Per chi non conoscesse Nino Baglieri, nato a Modica in provincia di Ragusa nel 1951, vorrei raccontare brevemente di come abbia vissuto i primi diciassette anni della sua vita come un ragazzo sano e pieno di vita, e solo per un incidente sul lavoro che lo ha visto precipitare dal quarto piano del palazzo dove lavorava come muratore, egli abbia perso in un momento l’uso di tutti gli arti, rimanendo come un tronco paralizzato in un letto o in una lettiga da trasporto… sono seguiti dieci lunghi anni  bestemmiando Dio e l’accaduto, pieni di rabbia, incomprensione della sua vita, perdita di fede e vergogna di fronte agli altri per essere ridotto così… e, come per Fabo, lunghi anni di ricerca di una guarigione fisica.

Finché un giorno, esattamente il venerdì santo del 1978, durante un momento di preghiera presso il suo letto fatta da un sacerdote e da un gruppo di persone, Nino non ottiene la tanto desiderata guarigione fisica, piuttosto quella dello spirito. Così, dirà lui stesso, “in quel giorno il Signore operò in me qualcosa di più grande della guarigione fisica”. La sua vita cambia radicalmente, si apre a Dio e agli altri, ed egli comincia a raccontare la sua storia ad una radio locale, lancia messaggi di vita e di speranza pur nella sua condizione, comincia ad essere cercato da frotte di gente che lo va a trovare a casa per ricevere consolazione e consiglio (fino a 80 persone al giorno ricevute)…

E poi Nino scrive libri, poesie, disegni personalizzati da regalare ai suoi visitatori  tenendo la penna con la bocca, risponde in vari anni ad oltre 7000 lettere spedite da vari continenti… parla al telefono con tanti ammalati che cercano un senso e un conforto  e li richiama componendo il numero con un’asticella… Nino si inventa una nuova vita e riesce ad affermare: “So che le mie sofferenze non sono inutili, servono a qualcuno, a qualcosa. Non importa essere malati o invalidi, l’importante è vivere per Lui, con Lui, in Lui». Quando morirà, il 2 marzo del 2007, chiede di poter indossare tuta e scarpette… per questo è uscito un recente film su di lui dal titolo “L’atleta di Dio”!

Questa la storia luminosa di Nino, questa per un credente la storia di una conversione meravigliosa e della testimonianza di come Dio trasformi ogni sofferenza per la sua gloria, ma anche la storia umana di quella che la psicologia della Gestalt ha definito come “adattamento creativo: integrando il bisogno sociale di condivisione delle norme con il bisogno individuale di originalità e differenziazione. La capacità artistica non appartiene esclusivamente a personalità eccezionali (né tanto meno nevrotiche), al contrario essa caratterizza l’adattamento spontaneo del nostro essere in relazione, e dunque il sano vivere sociale. Le relazioni umane sono intrinsecamente creative e auto-regolantesi…” (Antonio Sichera).

Una galleria di amici per Fabo, assieme a tanti altri che forse non conosceremo mai: il diciannovenne Matteo Nassigh (vivente e ancora oggi  agli occhi del mondo “handicappato gravissimo”), la vita tutta spesa per consolare gli altri del servo di Dio Nino Baglieri, il cuore pensante dell’ebrea Etty Hillesum di cui leggiamo i diari meravigliosi e palpitanti (capolavoro della letteratura del  Novecento)… tutti adattamenti creativi possibili, che mi piace pensare sorridano a Fabo anche in questo momento, senza sentirsi migliori, ma capendo fino in fondo la sua disperata ricerca di senso, di felicità  e di dignità.

Perché in ognuno ci possa sempre essere una “capanna” (il nostro essere in relazione), e “un cuore che pensa” e ama con coraggio (la nostra capacità artistica di essere unici in qualunque situazione ci troviamo)!

Grazie di avermi dato la possibilità di condividere anche sulla vostra testata il mio pensiero, che ho già avuto modo di esternare on line su www.Vino Nuovo.it

Cordiali saluti

Chiara Gatti

 

Gentile Direttore,
desidero esporre la mia opinione sulla grande questione morale dell’eutanasia, molto dibattuto in questi giorni, che  colpisce intimamente ciascuno di noi, attivando tutti i meccanismi di autodifesa legati alla nostra cultura, alla nostra esperienza e al nostro credo. Mi rendo conto che il grande problema che affronto non può risolversi nelle poche righe di una lettera, ma lo faccio in modo sereno, convinta che il suo giornale mi darà lo spazio necessario.

Come è noto il termine eutanasia significa letteralmente buona morte, cioè procurarsi intenzionalmente la morte, la cui qualità di vita sia dichiarata compromessa. Questa pratica viene provocata attraverso la somministrazione di  farmaci che inducono la morte e, come tutte le cose ha i suoi pro e i suoi contro. Chi chiede questa pratica innanzitutto fa una  libera scelta, dettata dalla convinzione profonda di sentirsi senza alcuna possibilità di recupero. Dall’altra parte  la morale, il giuramento di Ippocrate  e anche la religione vedono questa pratica come un suicidio-omicidio.

Infatti è stata oggetto di numerosi dibattiti, soprattutto per il fatto che essa non è legale in tutti i paesi. Sono 4, secondo gli ultimi aggiornamenti del Centre d’information sur l’Europe, i Paesi europei che hanno legalizzato il suicidio assistito e l’eutanasia attiva: la Svizzera, Olanda, Belgio e Lussemburgo a cui si aggiungono, Cina, Colombia e Giappone. Purtroppo questi malati terminali, come tutti ricordiamo il caso dj Fabo, devono pagare l’ultimo viaggio, perché in Italia tale gesto è considerato un  reato, rischiando fino a 15 anni di carcere. Molti altri stati, europei e non solo, hanno affrontato e legiferato in tema di eutanasia: in Italia ancora non si è proceduto in tal senso.

Ad oggi l’eutanasia è un reato, sia quella attiva che quella passiva.  La località preferita dagli italiani che decidono di ricorrere alla dolce morte è la Svizzera. Sono circa 200 i nostri concittadini che ogni anno decidono di emigrare verso il territorio elvetico per ottenere il suicidio assistito.

La sofferenza psicofisica è indubbiamente una schiavitù. La scienza stabilisce quando questa schiavitù è irreversibile. Il malato schiavo stabilisce quando questa schiavitù è insopportabile; nessuno può decidere al posto suo. La sofferenza sopportabile per qualcuno, può essere insopportabile per un altro. Senza che il primo abbia ragione e il secondo torto o viceversa. Ognuno ha la  libertà di seguire la propria concezione della vita.

Tuttavia, la Chiesa cattolica è contraria ad ogni forma di eutanasia, attiva od omissiva, mentre incoraggia il ricorso alle cure palliative e ritiene moralmente accettabile l’uso di analgesici, per trattare il dolore, anche qualora comportino  come effetto secondario e non desiderato  l’accorciamento della vita del paziente. Consente invece di sospendere, dietro richiesta del paziente, procedure mediche che risultino onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi; vale a dire che configurino accanimento terapeutico.  Per la Chiesa è una pratica inaccettabile, per questo motivo al suicida non solo gli viene negato il funerale in chiesa e sepoltura cristiana, ma anche elogio funebre. Quindi una doppia sconfitta per chi pratica questa esperienza a comando.

Perché non rispettare anche nella morte il valore di dignità che un malato ha avuto nella vita? Perché non rispettare il testamento biologico del malato terminale? Se la morte non è la fine ma un nuovo inizio, perché trattenere un uomo che vuole ricongiungersi con il Creatore?

Beh, gli interrogativi sono tanti e le risposte purtroppo sono poche. Non vogliamo vivere in una società suicida, ma non vogliamo neanche levare l’autodeterminazione in contesti tragici e critici. Ben venga una legge dello Stato che lasci libero il malato di decidere se vivere o morire.

Simona Brugaletta

 


 

Ho ricevuto con piacere le vostre due lettere che parlano di un argomento importante e di grande sensibilità umana: l’eutanasia. Ho letto con attenzione le due argomentazioni da voi manifestate e,  in verità non mi sento di rispondere ad un tema delicato e personale come questo. Lascio ai lettori la lettura, la valutazione e l’ascolto della propria coscienza.

Il Direttore

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