Chiamatemi Cassandra. Perché ve l’avevo detto! L’avevo detto qualche anno fa, a dirla tutta, durante uno dei miei seminari in cui anticipo le macro-tendenze della moda elaborate attraverso l’analisi del sociale. E avevo previsto che i maschi si sarebbero trasformati da pelati in barbuti.
Non avevo previsto, però, che la tendenza hipster si sarebbe diffusa così a macchia d’olio toccando più o meno ogni ceto sociale, ogni carattere e ogni professione. In una sorta di delirio collettivo o desiderio isterico di avere tutti grandi barboni, baffi attorcigliati e curatissimi e grandi abilità con mestoli e coltelli. Con contorno di tatuaggi colorati là dove la barba non arriva.
Oggi definirei questa tendenza un po’ isterica. Anzi, hipsterica.
Era forse il 2012 e gli uomini, dopo un decennio dedicato al taglio di capelli alla Bruce Willis (ovvero testa a ginocchio lucidissimo e a parer loro anche super sexy), si erano finalmente decisi a farsi ricrescere ciuffi e zazzere. Quelli che se lo potevano ancora permettere, almeno. Una sorta di recupero degli anni ’80 per acconciature e stile.
Lo avevo previsto. Perché dalle torri gemelle alla crisi mondiale, negli ultimi 15 anni non ce la siamo passata proprio benissimo. E la moda, che altro non è se non l’interpretazione materiale degli umori mondiali collettivi, ha perfettamente rappresentato questa epoca.
E così proprio quando ci è venuta a mancare la terra sotto i piedi e con essa anche soldi, sicurezze e valori, ecco che cerchiamo di correre ai ripari aggrappandoci almeno ai ricordi dei momenti più felici, dei giorni in cui il boom economico andava liscio come l’olio, di quando eravamo tutti più ricchi e spensierati, magari più stupidi ma meno stressati. Ovvero quegli Eighties tanto amati e tanto odiati.
E non solo. Avevo anticipato che:
- tanto maggiore è il disagio presente, tanto più marcato sarà il riferimento alle abitudini degli anni più spensierati,
- ci sarebbe stato un super fenomeno di riavvicinamento alla cucina (perché se abbiamo tutti meno soldi andremo anche di meno al ristorante e gli amici saremo costretti ad invitarli a casa nostra e dovremo pur preparare qualcosa da mangiare e bere di buono e quindi via con show cooking, bicchieri che centrifugano vini d’annata e tutto quello che ne consegue, o, come dico io, la food obsession!),
- le automobili avrebbero finalmente ritrovato tutti i colori dell’arcobaleno, abbandonando grigi, fumé e azzurro oltremare
- la musica avrebbe riproposto tematiche profonde e fondamentali come l’amore e la felicità (uno per tutti Pharrell Williams e la sua geniale ‘Happy’ che strizza l’occhio a ‘Don’t worry, be happy’, datata, guarda un po’, 1988 )
- avremmo indossato abiti leggeri e trasparenti e con tonalità smeraldo, marsala e opalescenze diffuse (perché per uscire dal buio tunnel della crisi speriamo di incontrare una luce chiara e limpida, che ci conduca a spiagge cristalline dove sorseggiare buonissimi drink, e così i tessuti si fanno leggeri e trasparenti a ricordarci che per vivere onestamente bisogna potersi guardare negli occhi e agire in modo trasparente, soprattutto in politica, finanza ed economia. E poi un bel vestito che abbia lo stesso colore dei dollari non si butta mai. E poi, ‘chi di verde si veste, di sua beltà si fida’, e quando tutti i valori sembrano tracollare, un po’ di autostima ci potrebbe salvare…
- le donne sarebbero tornate più femminili, con punto vita sottolineato da cinture, gonnelloni anni Cinquanta e calze sensuali, più bustier e meno volgarità, scarpe Mary Jane e chiome fluenti… e che più le donne recuperano femminilità e più i signori maschietti manifestano virilità. E quindi, cosa se non una curatissima, lunga, folta e morbida barba a dimostrazione di una mascolinità ritrovata e consapevole?
Ecco allora spiegata questa ondata di baffi e mustacchi. Questa nuova generazione hipster.
Chi sono gli hipster?? Wikipedia dice: “Il termine è un neologismo nato negli anni Quaranta negli Stati Uniti per descrivere gli appassionati di jazz e in particolare di bebop. Si trattava in genere di ragazzi bianchi della classe media, che emulavano lo stile di vita dei jazzisti afroamericani”, e ancora “Questo tipo di hipster è stato caratterizzato per indossare magliette stencilate, cappelli di paglia a tesa corta, felpe larghe, cardigan, vestiti di seconda mano, scarpe da ginnastica, per portare baffi semplici o arricciati, o folti, occhiali enormi dalle montature antiche, dal primo Novecento agli anni Ottanta, tagli di capelli asimmetrici, barba «da pioniere ottocentesco americano»”.
E perché tutto questo mi fa arrabbiare e mi fa diventare hipsterica??
Perché mi pare che si sia perso il senso profondo di questa tendenza che punta a recuperare valori morali passando per quelli estetici. E che, alla fine, si tratti solo e semplicemente di una moda che sparirà così come è venuta. Meglio, allora. Meglio per chi hipster lo è dentro.
Per chi i tatuaggi se li fa da sempre e prima era una pecora nera e oggi è uno fra i tanti. Meglio per chi sapeva cucinare già prima di Masterchef e nessuno se lo filava. Meglio per chi ha sempre guardato il prossimo dritto negli occhi e parlato chiaro, indossando abiti verdi e guidando macchine colorate.
E peggio per chi anziché essere qualcuno ha bisogno di qualcuno che gli dica chi essere.
E concludo citando la grande maestra Sozzani che in relazione alla mode sostiene: “È sicuramente un segno di grande indipendenza individuale crearsi il proprio guardaroba. Non ci sono più i diktat assoluti della moda, non esiste più un unico trend. La moda dovrebbe essere, per ognuno, l’espressione del proprio stile. E quindi libera scelta. E se la scelta migliore per se stessi è invertire le regole delle stagioni o ignorarle, è solo un altro passo verso la libertà. Ed è anche molto comodo”.
Amen.
Lucia Campisi
Torino