g. scifo

Postato in data 12 Marzo 2016 Da In Politica

L’URGENZA DELLA POLITICA, L’URGENZA DELLA SOCIETA’, L’URGENZA DEL CITTADINO

A seguirne la narrazione mediatica sembra che l’urgenza avvertita dalla politica, da quella internazionale a quella domestica, passando per quella nazionale, sia l’impulso ossessivo, quasi compulsivo, alla comunicazione rissosa e polemica, alla denigrazione dell’altro.
La prima riflessione si vuole soffermare sul dire, sul parlare, in buona sostanza sul pensare.
Miguel De Cervantes che nel suo “Don Chisciotte” nel lontano 1605, scriveva “In mezzo a noi c’è sempre una caterva di incantatori che mutano e scambiano le cose, trasformandole a loro piacimento, seconda che ci vogliano favorire o annientare. Così, questa che a te sembra bacinella da barbiere, a me pare l’elmo di Mambrino e per altro sarà qualcos’altro ancora.”

Non ci sgomenta ovviamente il dibattito ed il confronto praticato con una comunicazione schietta, diretta, leale, anche intellettualmente provocatoria senza paludamenti e lessici felpati, che non giovano alla dialettica democratica.

Ma la comunicazione se vuole essere nutriente non può prescindere dal conformarsi ad alcuni inevitabili principi che ne devono orientare la direzione di marcia.
Preliminarmente l’assoluto rispetto del pensiero divergente. E’ una cifra stilistica e valoriale irrinunciabile anche di fronte alle insolenze che non di rado accompagnano il pensiero discordante. Diceva Leonardo “non muto il guardo se a stella è fisso”. E lo sguardo lucido cerca orizzonti lontani e comuni, che non possono restare irretiti da polemiche sterili e corrosive.

La comunicazione non già come surrogato della politica, come propaganda imbonitrice e manipolativa, ma come strumento prezioso attraverso cui gli Amministratori entrano in relazione con gli amministrati, svolge allora un ruolo centrale.
Il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer: scrive che “La comunicazione è il terreno su cui si gioca ogni opportunità di incontro tra gli uomini e degli uomini con gli eventi, dunque con il futuro dell’umanità”
In tempi di “democrazia della indifferenza” come sostiene Nadia Urbinati , in cui si assiste “alla cesura netta tra il palazzo della politica, in cui vengono prese le decisioni, e la comunità che avverte sempre più la propria irrilevanza nei processi di formazione delle stesse”, la comunicazione diventa una risorsa preziosa.

Comunicare, come si evince dalla radice stessa dell’etimo, indica il bisogno di mettere in comunione, partecipare bisogni, visioni, speranze, progetti, idee, soluzioni, divergenze, declina la difficile arte di scomporre e ricomporre la complessità (senza cioè cedimenti alla rozza esemplificazione della demagogia e del populismo), in buona sostanza la sofferta arte della politica.
E tutto ciò si realizza, si fa storia della comunità, nella sede del confronto, anche aspro e serrato quando necessario, ma sempre teso tenacemente alla sintesi, in quanto espressione della irriducibile passione per il dialogo.
Tutto ciò ci sembra sia mancato, non ci è parso di rinvenire nei convulsi rituali del dibattito politico di questi ultimi tempi. Netta è stata la nostra sensazione che fin qui abbia prevalso un io egoico e autoreferenziale, piuttosto che un io dialogico e relazionale.

Si fa urgente l’ascoltare contro il combattere. Scrive F. S. Perls che gli individui che ascoltano non combattono e quelli che combattono non ascoltano. Se le fazioni in guerra della nostra società, aprissero i loro orecchi e ascoltassero i loro avversari, le ostilità nel nostro ambiente e tra le nazioni diminuirebbero grandemente.
Il concetto di “Ti sto dicendo ciò di cui ho bisogno“, sarebbe sostituito da “Sto ascoltando che cosa vuoi“, e sarebbe aperta la base della discussione razionale.
Ciò si applica tanto ai nostri conflitti interni quanto alla situazione mondiale in generale.”.

La seconda annotazione si riferisce alla necessità che il nostro pensare, il nostro parlare ed ascoltarci in polifonia, come auspichiamo, sia orientato al fare.
Ci soccorre ancora la sapienza leonardesca per dire come lui : sono stato segnato dall’urgenza del fare. Sapere non è abbastanza; dobbiamo applicare. Le buone intenzioni non sono abbastanza; dobbiamo fare.”
Ma il fare deve essere “pensato” ed “etico”.

Illuminante al riguardo il suggerimento di Lombardi Satriani, “Abbiamo bisogno di speranza e di utopia, di qualcosa che trascenda il quotidiano, di un’antropologia che tenga conto dei sentimenti, della pluralità dei linguaggi, del rispetto della propria e dell’altrui specificità. Che si sottragga all’arroganza del mercato, che ci restituisca il senso dell’aspirazione alla felicità, il senso del nostro agire, e nel far questo l’antropologia non può non incontrarsi con l’etica”.
E l’azione della politica perché possa definirsi etica piuttosto che accartocciarsi sulle logiche di parte deve rimodularsi sulla dolorosa ricerca del bene comune, che gli permetterà di superare quella fragilità, quella deficienza immunitaria che la svilisce, che genera distacco e disaffezione, che facilita l’insinuarsi della mafia, del crimine e della corruzione, della illegalità diffusa.

Ma il recupero della dimensione della eticità si riferisce solo alla classe dirigente di un paese?
O invece non chiama alla responsabilità ogni cittadino, poiché‚ a nessuno è consentito sottrarsi all’obbligo di fare (e farlo bene) qualcosa per il proprio paese, quale sapiente dispiegarsi della democrazia partecipativa.
Facciamoci un esamino di coscienza con queste parole di Gramsci “Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiamo oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”

C’è cioè una inconfutabile linea di continuità che unisce i grandi e i piccoli egoismi, la egoità dei grandi e dei piccoli palazzi, l’anima essiccata dei grandi e dei piccoli templi (quelli della finanza e quelli delle nostre famiglie), in cui campeggia in modo opprimente il piccolo interesse personale ( familiare, di gruppo, di cordata, di partito), mentre il bene comune resta sfumato sullo sfondo, fino a quasi scomparire dall’orizzonte di senso di queste nostre comunità. Bisogna cambiare verso. Invertire la rotta, allora, vuol significare uscire da una lunga stagione politico-sociale della “mancanza” ed inaugurare una rinnovata stagione della partecipazione alla vita democratica, che non si deve esaurire nel semplice atto di delega (voto) ma ci chiama ad esercitare “attivamente” il ruolo di “cittadino” tutti i giorni con consapevolezza e responsabilità. Astenersi, dichiararsi neutrali, equidistanti, rispetto alle diverse posizioni non serve; questo tempo diventi il tempo della riflessione per partecipare conservando il rimpianto ed il fremito per il bene comune, sacrificando a questo valore prezioso ed imprescindibile per la coesione sociale, l’interesse individuale, l’ambizione per il successo personale.

Imperativo categorico del buon cittadino è guardare a chi sa servire la cosa pubblica, piuttosto che… servirsene!!!!
Certo in questa temperie delle passioni tristi è facile lasciarsi prendere dal pessimismo e dalla disillusione, ma come diceva E.Rostand “è proprio di notte che è bello attendere la luce. Bisogna forzare l’aurora a nascere credendoci”. Ovviamente non si può non sperare fortemente che tutti i mondi vitali della città si impegnino, con forme e modalità molteplici e diverse, ma con le stesse finalità, quelle di edificare una città legale, onesta, libera, educata, ordinata, intelligente, verde, pulita, solidale, sicura, produttiva, aperta, pensante, bella… ;
La stella polare dell’impegno è questa: “mettersi al pezzo” con il senso della gratuità, come espressione della nostra vocazione di uomini che vogliono fare una buona cosa e provare a generare da questo gesto la bellezza e la vita. Ed allora mettiamoci al pezzo!

Giovanni Scifo

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