Postato in data 29 Luglio 2019 Da In Spettacoli

IN VIAGGIO CON SOFIA di Paola Stella

 

A lei piacevano le stazioni, gli aeroporti… insomma, tutti i luoghi dove poteva starsene comodamente seduta a osservare la moltitudine umana, o almeno quella concessa dal destino in un dato giorno e in un dato luogo. Si sentiva attratta da tutte quelle vite, che lei immortalava nella mente come scatti fotografici, e da cui traeva spunto per creare storie.

Un giorno, mentre attendevo il mio volo, fra tutti i passeggeri ne notai uno molto interessante. Aveva un’età indefinita, anche gli uomini camuffano la loro età colorandosi i capelli bianchi e vestendo abiti sportivi. Fissai, senza farmene accorgere, il mio sguardo indagatore su di lui, era così distratto da inciampare… urtare qualcuno o qualcosa… mentre imperterrito continuava a leggere un librone. Fui presa da una grande curiosità di conoscere il titolo di quel libro. Immaginai, allora, la sua traiettoria e la percorsi al contrario per trovarmelo di fronte. Si potrebbe pensare che non è da sani di mente un comportamento come il mio, di chi, cioè, vuole introdursi nella vita degli altri.

In verità, il mio era un peccatuccio, volevo scoprire che libro stesse leggendo con tanta avidità da estraniarlo da tutto il resto. A volte mi capita, camminando su una stradina ricoperta di ciottoli, che il mio sguardo venga catturato da uno di essi, particolare per forma, colore, lucentezza, allora mi fermo a guardarlo meglio. Così accadde con quell’uomo sconosciuto, non so bene il motivo ma volevo saperne di più. Caso… Fato… attrazioni mentali involontarie ma forti, difficili da spiegare… vallo a sapere perché… Ritornando all’incontro-scontro che dovevo provocare, questo si verificò senza particolari danni, salvo il fatto che quel librone cadde a terra e con esso decine e decine di foglietti scritti a mano, che si sparsero sul pavimento. Confesso che mi vergognai di me stessa. Mi misi subito a raccogliere uno per uno quei foglietti a quadretti pieni di calcoli, formule di fisica mai viste prima. Ahimè, il libro era scritto in inglese! Che stupida sono stata a non averlo mai studiato né al liceo né dopo. Il titolo, probabilmente, si riferiva alla scoperta di nuove particelle della materia. Era dunque un Fisico! Rossa di vergogna e pentita per avere scompigliato quei preziosi appunti, chiesi scusa e me ne andai di corsa. 

Pensavo di non rivederlo più, le probabilità erano scarsissime: quante volte può capitare di incontrare di nuovo una persona vista in un aeroporto di una città non propria, di passaggio, mentre ti stai imbarcando per San Pietroburgo? In realtà, i nostri destini non si sarebbero mai più incrociati, se non fosse accaduto un grave inconveniente, la pista era divenuta impraticabile per una improvvisa e abbondante nevicata, per cui i voli erano stati rimandati o in qualche caso annullati. Dopo un primo momento di sconforto comune, per fortuna il clima si rasserenò.
Come sempre mi accade nelle attese, in fila negli uffici o dal medico, incominciai a divertirmi ad osservare i vari tipi umani e ad immaginare le loro vite dal loro aspetto, da come si muovevano, da come parlavano. Le sale d’attesa incominciarono a diventare stracolme, mancavano le sedie e molti passeggeri decisero di sedersi per terra. E’ in frammenti di tempo come questi che si evidenziano le varie personalità del genere umano: chi si fa prendere dal panico, chi si arrabbia e impreca, chi rimane imperturbabile, chi ne approfitta per vedere i negozi, chi si mette a giocare a carte seduto per terra con altri ragazzi trovati lì per caso. I bambini poi…per i bambini è una festa, si organizzano a bande e incominciano a scorrazzare in lungo e in largo. Il tempo si ferma per centinaia di persone, ognuna con la propria storia, tutte accomunate da uno stesso destino: tutti bloccati, intrappolati, costretti a fermarsi. Intanto s’intessevano rapporti di amicizia con i vicini di sventura, si scambiavano opinioni, s’individuavano sguardi, si creava una corrente empatica fra persone assolutamente estranee.

 Decisi per un po’ di dedicarmi ai miei immancabili compagni di viaggio, i cruciverba in bianco. Ad un tratto, sentii che qualcuno dall’accento marcatamente inglese mi rivolgeva la parola. Alzai lo sguardo e rividi quell’uomo misterioso. “Oh, povera me! E adesso?” Con tutto quel trambusto mi era passata di mente quella figuraccia del libro fatto cadere insieme a tutti quei foglietti che si erano sparsi per terra. Credevo che non l’avrei più rivisto, e invece eccolo lì. Gli feci un sorriso, confidando nel potere terapeutico del mio sorriso, e infatti…

” Mi scusi, posso offrirle una cioccolata calda?” mi chiese.  Lo guardai imbarazzata e stupita. Per alcuni interminabili secondi non seppi come rispondere. Pensavo: “cosa vorrà da me? e se parla in inglese? e se mi fa un esame di fisica? e poi…come faccio con le valigie, me le porto appresso?” Insomma, decine di domande in frazioni di secondi. Alla fine, i suoi occhi intelligenti, acuti ma anche buoni, mi convinsero ad accettare. Si comportò da gentiluomo, come solo quelli di una certa età sanno fare ormai. Mentre sorseggiavamo la cioccolata, scrutavo, senza apparire troppo insistente, quegli occhi particolari, che chissà quanti libri, formule, numeri avevano letto. Erano profondi, quasi neri, con delle sfumature grigie, che nell’insieme avevano il colore del mare di notte. Non ci furono le solite domande che si fanno al primo incontro fra estranei. Sembrava che non gli importasse nulla né del mio nome né della mia destinazione né del mio lavoro. Mi chiese se la cioccolata fosse di mio gradimento e poi un lungo silenzio. Del resto, il mio aspetto per niente esuberante né tantomeno attraente, mi aveva fatto escludere un approccio mirato ad una eventuale conquista. Durante quei minuti di silenzio al bar e di qualche sguardo rubato, mi chiedevo cosa porti una persona ad individuarne un’altra, in particolare, fra tante, e ancora, che influenza avrebbe avuto sulla mia vita. Sì, perché io sono convinta che ogni incontro condizioni il nostro modo di essere. Certamente solo alcuni sono determinanti. In quel momento mi chiesi se quest’incontro sarebbe stato determinante per me.

Mentre in silenzio ci scrutavamo l’uno di fronte all’altro, mi resi conto che entrambi avevamo una cosa in comune: ciascuno di noi due voleva penetrare nell’anima dell’altro senza fare ricorso ad inutili parole. Io, almeno, volevo attribuire dei modi di essere, dei sentimenti, a ciò che rivelava quel viso di quella forma un po’ allungata, con quelle angolature della bocca, con quelle rughe, e ancora, con tutti quei segni, compresa una cicatrice sull’arcata sopraccigliare destra. Soprattutto m’intrigavano gli improvvisi balenii di quegli occhi, che lasciavano intuire guizzi di pensieri che si rincorrevano nella sua mente. Dai gesti lenti delle sue mani percepii eleganza, buona educazione, gentilezza, rispetto per la persona che gli stava di fronte. Guardandolo attentamente mi accorsi che non aveva i capelli tinti, come avevo pensato inizialmente, fra il nero s’intravedevano dei fili bianchi ben distribuiti in una chioma folta e morbida Indossava una camicia di cotone pesante a quadretti, un po’ logora nei polsini, un gilet di cashmere e una giacca di velluto a coste di un bel colore caldo, marrone chiaro, con le toppe ai gomiti. Mi diede l’idea di un uomo che bada alla sostanza, che solo raramente rinnova gli abiti, ma che quando lo fa sceglie capi di buona qualità e duraturi nel tempo. Era alto e asciutto, con la pelle bruna, indossava comodi scarponcini scamosciati dalla pianta larga e un paio di pantaloni di fustagno abbastanza comodi e un po’ sformati dall’uso, ma dal taglio elegante. Le mani affilate mi fecero pensare a quelle di un musicista, un pianista forse. Poi, quelle spalle larghe e ossute mi diedero l’idea di un ex atleta, chissà, forse da giovane era stato uno scattista.
Riflettevo sul fatto di quante cose possa dire o fare intuire l’aspetto di una persona.
In realtà, chi era davvero quell’uomo? Perché m’incuriosiva così tanto?

 Ad un tratto gli chiesi scusa per aver provocato la caduta del suo libro e di tutti quei foglietti che conteneva. Mi rispose che quel mio gesto era solo apparentemente stato deciso da me, ma che in realtà faceva parte di un disegno del Fato. Noi due dovevamo incontrarci ne-ces-sa-ria-men-te. Pensai subito al concetto giapponese di Karma. Avevo finito di leggere da poco il libro Shogun, che mi aveva introdotto nella filosofia orientale, e ora, guarda caso, mi trovavo davanti una persona, fra centinaia in quell’aeroporto e in quel tale giorno, che mi riportava a quei concetti misteriosi e inspiegabili della vita.

Eravamo diretti entrambi a S. Pietroburgo e, quando la pista fu pronta, ci imbarcammo nello stesso aereo, ma in posti lontani. Una volta atterrati, ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa di rivederci l’indomani pomeriggio.

Il giorno dopo suonò il pianoforte per me, solo per me, in quel bellissimo Caffè letterario sulla Nevski Avenue di San Pietroburgo. Fu un momento magico, che mi mette ancora oggi i brividi solo a pensarci. Sfiorava i tasti, quasi li accarezzasse, guardandomi in maniera dolce ma intensa, e attraverso quelle note esprimeva i suoi pensieri, che a me apparivano chiari ed espliciti. Mi stava raccontando la sua vita: ora trapelava un dolore antico e la musica si faceva struggente, ora melodiosa come una ninna nanna, ora tinta di blues. Oh, quelle note… sembravano ripercorrere la mia vita, o forse anche quella di tanti altri. Chissà perché aveva scelto proprio quella musica. Ero incantata, emozionata, catturata completamente da quell’atmosfera, e sorpresa di trovarmi così in sintonia con quell’uomo, di cui non sapevo quasi nulla, apparentemente, ma che mi era già familiare.
C’erano altri ospiti in quel caffè, ma eravamo riusciti a creare come una bolla trasparente che ci isolava dagli altri, ma che allo stesso tempo ci consentiva di sentirci reali, in quel luogo e in quel particolare momento.

Furono giorni frenetici quelli trascorsi a San Pietroburgo. Ero ospite di Emilia, una mia carissima amica italiana, con la quale stavo conducendo una ricerca sulla vita di Dostoevskij. ln una antichissima biblioteca privata erano stati ritrovati scritti inediti di questo grande autore. Tramite l’Università per la quale lavoravo ero riuscita ad avere accesso a quei documenti preziosi, ed ero lì per questo.

 Antonio invece era uno dei relatori di un importante Congresso internazionale di Fisica, che si svolgeva in un prestigioso hotel, Park Inn Nevski, sulla Prospettiva Nevski. Lo raggiungevo verso sera con una comodissima metropolitana, e parlavamo… parlavamo… affacciati sulla Neva o mentre passeggiavamo o fra due cioccolate fumanti in un bar. Dopo il suo concerto improvvisato per me in quel Caffè, l’indomani dell’arrivo, si era generato un fortissimo e misterioso campo magnetico fra di noi, che aveva scompaginato le nostre vite, stordendoci e spostando il nostro baricentro personale. Lui sarebbe presto ripartito, io mi sarei trattenuta ancora un po’. Viaggiava spesso, soprattutto all’estero, Stati Uniti, Inghilterra, Giappone. Possedeva una casa a Oxford, e da quando la moglie e la loro unica figlia erano morte tragicamente in un incidente stradale, si rintanava lì in solitudine, appena poteva. Non andava quasi più nella loro casa milanese. E io? Io credevo di avere definitivamente chiuso con le storie sentimentali.

Durante le nostre lunghe chiacchierate mi aveva raccontato che, dopo la tragica morte della moglie e della figlia,  aveva chiuso ermeticamente la sfera dei sentimenti, non frequentava quasi più nessuno al di fuori dei colleghi e dei suoi più vicini collaboratori di lavoro. Francesco, il suo migliore amico, da tempo aveva rinunciato a chiamarlo o ad invitarlo a casa sua. Per un po’ di tempo aveva provato a convincerlo ad andare in analisi, per tentare di fargli recuperare parte della sua vita, poi aveva desistito. D’altro canto, Antonio evitava d’incontrarlo o si negava al telefono, per non essere costretto ogni volta ad inventare scuse per non affrontarlo. Non voleva ammettere a se stesso che ormai viveva d’inerzia, senza gusto per la vita, senza slanci. Trovava rifugio in quei calcoli che lui rendeva vivi a prescindere dai suoi sentimenti, che anzi lo allontanavano dai ricordi. A San Pietroburgo, mentre visitavamo il Palazzo d’inverno l’indomani del primo concerto nel Caffè letterario, incominciò a raccontarmi episodi della sua infanzia, ma non in ordine. Gli venivano in mente dei flash, e me li riferiva, come fossero stati sogni da scrivere subito appena svegli, per paura di perderli. Mi disse che da molto tempo non parlava di sé con qualcuno, che suonare il piano per me lo aveva rimesso in contatto con quella parte di sé buia e aveva aperto uno spiraglio nella sua sfera emotiva. Gli dissi che a volte è più facile aprirsi con un estraneo, incontrato per caso, che magari non s’incontrerà mai più, perché si può essere sinceri senza dover temere giudizi. Lui mi rispose che io non ero un’estranea, che la sua anima era entrata subito in contatto con la mia per una via privilegiata e diretta.
Era così anche per me, indubbiamente.
Nei giorni successivi mi rivelò di essere ossessionato da un terribile senso di colpa, che lo martoriava e che teneva a bada solo impegnando la mente continuamente con la fisica. Qual era il mistero? Quell’uomo mi intrigava sempre di più.

Un tardo pomeriggio di fine aprile, ci trovavamo sul suggestivo Ponte Troitskij ad ammirare un tramonto meraviglioso sul fiume Neva. Ricordo quei colori del cielo riflessi sull’acqua… sugli edifici… Ecco, quegli edifici pietroburghesi capaci di cambiare colore nelle diverse ore del giorno, dal madreperlaceo dell’alba, all’avorio, al giallo, al rosa. In quel momento, per esempio, il palazzo dell’Ermitage era di un magnifico rosa. Uno spettacolo!

 Conversavamo. Ad un tratto gli chiesi come si fosse fatto quella ferita, di cui si vedeva la cicatrice, accentuata da un effetto di ombre dovuto proprio a quella luce particolare, sull’arcata sopraccigliare destra. Si rabbuiò, all’improvviso i suoi occhi divennero più neri di un lago di notte e s’inumidirono, la fronte si aggrottò, la sua pelle diventò terrea. Mi pentii di avergli fatto quella domanda, proprio in quel momento d’incanto e di armonia. Purtroppo era fatta, non potevo tornare indietro. Maledissi la mia curiosità infantile, gli chiesi scusa e lo invitai ad incamminarci, sperando in una possibile distrazione lungo la strada. Gli dissi che amavo le “notti bianche” di San Pietroburgo, quei crepuscoli infiniti di mille colori, che sarebbero cominciati da lì a poco, e che avrei potuto ammirare. Contavo, infatti, di trattenermi altre due settimane, in modo da arrivare a primavera inoltrata per poter godere di questo fenomeno particolarissimo. Come dimenticare quelle pagine bellissime di Dostoevskij, Puskin, Gogol, sulle notti bianche? Gli stavo raccontando la leggenda secondo cui Pietro il Grande si accordò con i “quattro elementi” quando decise di fare sorgere proprio lì la città. Antonio, delicatamente ma in modo fermo, mi prese una mano, inducendomi a tacere e mi disse che, pur se con tanta afflizione, era disposto a parlarne con me. Mi disse che quella ferita era collegata con l’incidente in cui erano morte la moglie e la figlia.

Erano passati più di due anni, ma il tormento e il dolore erano rimasti intatti, vetrificati nella sua mente, come si fa con le scorie radioattive. La mia domanda aveva provocato uno tsunami inarrestabile, che mai nessun altro era stato capace di provocargli. A quella domanda si era ormai abituato a rispondere in modo evasivo, senza implicazioni emotive. Con me fu diverso, il rimorso, il dolore, i ricordi… strariparono oltre ogni ragionevole misura.

Antonio diede inizio al suo racconto: “Mia moglie ed io cominciammo a frequentarci sin dai tempi del liceo. Facevamo parte dello stesso collettivo di Lotta continua, sempre in prima linea nelle manifestazioni per il diritto allo studio, il trasporto gratuito dei pendolari, la legalità, la giustizia, ecc. Era il tempo delle Comuni, e noi dovevamo essere al passo con i tempi. Durante l’Università anche noi facemmo quell’esperienza. Eravamo sei inseparabili amici e decidemmo di condividere, per alcuni mesi, uno stesso appartamento, ragazzi e ragazze. Esperienza per nulla esaltante, direi fallimentare, soprattutto dal punto di vista di mia moglie. In seguito, realizzate tutte, o quasi, le esperienze rivoluzionarie di quegli anni ’70, richieste da un codice non scritto ma fondamentale per definire il nostro senso di appartenenza ad una vera Sinistra, ritornammo ad un assetto più o meno borghese, molto somigliante a quello delle nostre famiglie di origine, appunto, piccolo borghese. Dopo la laurea ci dedicammo ad un lavoro sicuro, ci sposammo, nacque Elisa.
Altro che rivoluzionari! Tutto si svolgeva proprio secondo un cliché già sperimentato. Eravamo una famiglia di intellettuali di sinistra, però con villa in città, casa al mare, fuoristrada, vacanze super lussuose e così via. E i principi di comunismo, di lotta di classe, di sesso libero, di condivisione delle proprietà? Facevano parte della nostra mentalità, ma più come modello che come modo di essere. Fatto sta che, dando per scontate sempre più cose, mia moglie ed io ci eravamo abituati al silenzio, allontanandoci sempre di più l’uno dall’altra. Apparentemente eravamo una coppia bellissima, invidiata da tutti, organizzavamo splendide serate musicali con cene deliziose. In realtà eravamo diventati sempre più degli estranei, avevamo perso per strada la voglia di giocare, la curiosità verso l’altro. Tuttavia, gestivamo la famiglia nel migliore dei modi. Mia moglie aveva rinunciato al lavoro di ricercatrice per occuparsi meglio di nostra figlia, visto che io mancavo sempre più spesso per i viaggi di lavoro.

Nei primi anni mi accompagnava in giro per il mondo, poi decise di non farlo più. Durante un viaggio in California, due anni e mezzo fa, ebbi una breve storia con una collega, una cosa da niente, senza coinvolgimento emotivo da parte mia. Doveva avere la durata del viaggio. Invece quella donna si innamorò follemente di me e incominciò a telefonarmi a tutte le ore. Fui costretto a parlarne con mia moglie, che credevo ancora “aperta” riguardo queste cose. Invece ebbe una reazione violenta sia verbalmente che fisicamente. Mi comunicò che l’indomani se ne sarebbe andata, insieme ad Elisa, almeno per un po’. Cercai di farla calmare, di farla ragionare, non ci fu verso. In quei giorni la sua auto era dal meccanico, quindi, all’alba, mentre dormivo su un divano, lei prese le chiavi della mia auto e uscì. Ma io, nel trambusto di quella lite furibonda, non le avevo detto che proprio vicino a casa, la sera prima, avevo urtato contro un ostacolo, una pietra o non so cosa, (pioveva a dirotto, non si vedeva niente) e probabilmente si era danneggiata la coppa dell’olio. Avrei provveduto il giorno dopo.

Lei, dunque, insieme a nostra figlia prese la macchina e si avviò verso la casa di mare. Mi svegliai quando sbattè la porta di casa, scesi subito per fermarle, ma erano già partite. Chiamai al cellulare e non risposero. Telefonai immediatamente a Francesco e gli dissi di raggiungermi subito. Andammo di corsa, sperando di raggiungerle prima che fosse troppo tardi. Percorremmo una ventina di chilometri a velocità pazzesca, quando fummo raggiunti da un odore acre di fumo. Poco più avanti intravedemmo la mia auto avvolta dal fumo ferma su una piazzola. Uscii dalla macchina di Francesco mentre ancora era in movimento, tanta la fretta, stavo per aprire lo sportello di mia moglie, che era rimasta bloccata dentro, quando uno scoppio mi sbalzò per terra con lo sportello addosso, la maniglia andò a finire sulla mia faccia, e per poco non restai cieco, la macchina prese fuoco e io svenni. Arrivò l’ambulanza dopo pochissimi minuti, ci portarono subito in ospedale, ma per mia moglie e mia figlia non ci fu niente da fare. Io ebbi delle ustioni e un trauma cranico per cui fui operato. Ecco l’origine della cicatrice. Accadde tutto per colpa mia. Non potrò mai perdonarmi.”

Alla fine del suo racconto, Antonio mi parve spossato, ma i tratti del suo viso si erano addolciti. Mi disse che si era rasserenato e che credeva non sarebbe riuscito mai a tirar fuori quella storia dolorosa. Aggiunse che con me si trovava a suo agio come mai con nessuno prima di allora. E mentre l’ultima parte del sole s’inabissava all’orizzonte, e i colori del cielo si fondevano fino a diventare blu scuro, mi avvolse in un lungo, intenso e disperato abbraccio. Lo avevo ascoltato in silenzio, senza mai interromperlo, per non disturbare quel momento particolare. E lui aveva apprezzato la mia capacità di ascolto. Mi confessò che sin dall’incontro in aeroporto aveva intuito la bellezza della mia mente ed era stato colpito era stato colpito dal mio sorriso. Aveva avvertito delle vibrazioni nelle sue corde, e uno stato di freschezza sconosciuto, come un raggio di luce nelle tenebre. Cominciò a parlare di fisica quantistica e di sincronicità, ben consapevole del fatto che io non avrei potuto comprendere tutto. Invece, con il suo linguaggio semplice, come solo i grandi sanno usare, mi coinvolse completamente, e fu delizioso nel rispondere alle mie tante domande. Mi prese per mano e mi portò nel “nostro” Caffè letterario, dove suonò il piano per me con infinita dolcezza. M’innamorai di lui. 

Suonò, dunque, il pianoforte ancora una volta per me, l’ultima sera di permanenza per lui, a San Pietroburgo e fu un incanto. Mi confessò che non suonava con tanto trasporto da anni, che la mia presenza aveva smosso qualcosa nel suo animo, nelle acque stagnanti in cui viveva ultimamente. Si ubriacava di lavoro per non annegare negli abissi del dolore. Quella sera suonò, fra l’altro, “Ne me quitte pas”. Fu come una preghiera, qualcosa di sacro che mi commosse profondamente, mi chiedeva di non lasciarlo. Un momento d’intensità estrema.

Mi disse che per lui era stato un regalo di Qualcuno fargli incontrare me, che da molto tempo non provava quel senso di gaiezza e di vitalità e che, se anche avesse dovuto aspettare secoli prima di rivedermi, ne sarebbe valsa la pena. A me, che impazzivo di gioia e di amore ad ogni tocco delle sue dita su quel pianoforte bellissimo. A me che mi sentivo svenire nel guardare quelle mani che accarezzavano i tasti così come immaginavo potesse accarezzare il mio viso. Ed era esperienza forte. Mi sembrava un sogno che era diventato realtà, e una realtà che aveva le connotazioni di un sogno. Tanto dà l’amore. E io? Io che avrei voluto abbracciarlo, baciarlo mentre suonava, io che non avrei voluto che quei momenti finissero, percepivo tutta la profondità ma anche la complessità del nostro amore.
Mi disse, ancora, che in quei giorni aveva valutato la possibilità di ridurre le sue collaborazioni con le Università e con i vari Istituti sparsi per il mondo, per poter disporre di maggiore tempo libero da dedicare a me. E io, di fronte a una situazione così complessa, come avrei potuto reagire? Cosa avrei dovuto rispondere?

Fu una serata magica, una delle più belle della mia vita. Conversammo ancora dopo il suo dono musicale. Anche io gli parlai della mia giovinezza, delle mie esperienze politiche nei movimenti di sinistra, come le sue, della fondazione del primo collettivo femminista nella mia città. Gli parlai dei concerti rock e jazz ai quali avevo partecipato, delle mie tante letture, degli amori finiti. Eravamo coetanei, e sebbene avessimo abitato in città molto lontane fra loro, avevamo, parallelamente, vissuto esperienze simili. Gli raccontai del fallimento del mio matrimonio e del carico enorme di responsabilità di madre nel dover crescere due figli da sola. Mi era andata bene, avevo due figli maschi splendidi, responsabili e affettuosi, che lavoravano in Inghilterra. Ci guardavamo negli occhi e io mi sentivo sciogliere sotto il suo sguardo amorevole e avvolgente. Antonio aveva buttato giù la corazza di uomo razionale e freddo ai sentimenti. Mi disse: “Ecco, il re è nudo, non posso più ignorare questo forte trasporto per te, ora avverto una grande sete di amore e di tenerezza. Ho colto in te un istinto materno che non ho individuato in nessun’altra, di cui sento un forte bisogno. Tenerezza, affetto.” E alle mie inevitabili domande sul nostro futuro insieme, molto complicato, mi rispose con un sorriso rassicurante. Quella notte non volli pensare alle mie tante insicurezze, al mio senso di inadeguatezza, ai miei tanti anni. Per una volta, dopo molto tempo, mi sentii una donna affascinante, desiderabile e mi lasciai trasportare dolcemente dalla corrente.

Quella fu una notte incredibile, ricca di dolcezza e di passione. La bellezza assoluta che io avevo desiderato per tutta la vita, la fusione armoniosa con il Cosmo. Ci fu una sintonia psicofisica straordinaria, come se i nostri corpi si fossero riconosciuti e avessero trovato esattamente l’uno il complementare dell’altro. Sensazione meravigliosa di completezza e di gioia infinita.

Il giorno dopo quella notte straordinaria, Antonio partì per un altro convegno prestigioso organizzato dall’Università di Princeton, negli Stati Uniti.
M’invitò ad andare con lui, ma io non cedetti alla tentazione di accettare, feci vincere la parte saggia di me. Ero frastornata, scombussolata, scottata da esperienze precedenti. Desideravo fare sedimentare quei sentimenti tumultuosi, volevo sondare il mio animo in profondità.
In quei giorni avevo trascurato Emilia, alla quale avevo raccontato, senza andare troppo in profondità, di Antonio e avevo bisogno di confrontarmi con lei. La mia amica sapeva quanto io avessi patito in passato e voleva proteggermi. Mi diceva che questa storia era una cosa che non stava né in cielo né in terra, che certamente saremmo stati molto spesso lontani, e io ne avrei sofferto, che alla nostra età queste “avventure” possono costare molto care. Io ero molto presa da Antonio, lo trovavo interessante, affascinante, coinvolgente, e pur condividendo nelle linee generali la saggezza di Emilia, sarei partita subito con lui.

Non lo feci.
Dovevamo completare il lavoro su Dostoevskij, inoltre volevo stare ancora un po’ con lei a San Pietroburgo, e godere della sua vivace intelligenza e del suo grande senso dell’umorismo. Ci facevamo delle bellissime risate insieme.
Con Emilia c’eravamo conosciute all’Università, proprio il primo giorno di lezione. Ricordo ancora quell’aula affollata, e quel senso di eccitazione ma anche di smarrimento. Mentre mi guardavo intorno per scoprire eventuali visi conosciuti, ad un tratto incrociai i suoi occhi, ci sorridemmo e ci sedemmo vicine, da allora diventammo amiche. Condividemmo molte esperienze di studio e non, ci laureammo lo stesso giorno. Dopo l’Università, pur vivendo in città diverse, abbiamo sempre mantenuto i contatti e la nostra amicizia si è definitivamente consolidata.

Emilia non si è mai voluta sposare, non ha avuto figli e, forse, non si è mai veramente innamorata di un uomo. Mi ha sempre ripetuto che lei si completa da sola, che considera sciocche le donne che pur di non stare sole si accontentano di amorucoli. Ha avuto alcune storie, che ad un certo punto ha interrotto perché limitavano troppo la sua libertà. Da alcuni anni ha deciso di vivere a San Pietroburgo, dove lavora come ricercatrice.
A differenza di Emilia, la sfera sentimentale conta moltissimo per me. È nell’amore che si rivela per me l’idea di bellezza, cioè, quando non si ha paura di essere inadeguati, quando ci si sente liberi di esprimersi senza temere il giudizio dell’altro, quando ci si sente compresi anche avendo opinioni e gusti diversi, quando i valori sui quali si è centrata la propria vita coincidono (onestà, correttezza, lealtà, sensibilità, altruismo…).
Certamente va detto che anche altre passioni, come quella per la musica, per la pittura, per la scrittura, o per altro, possono essere totalizzanti e possono originare bellezza.

Un pomeriggio Emilia mi portò nella bellissima libreria Dom Knigij, dove acquistai delle favole russe tradotte in italiano, magnificamente illustrate. Incontrammo, lì per caso, alcuni suoi amici anche loro accaniti lettori, simpaticissimi, che masticavano un po’ d’taliano. Ivan, Natasha e Dimitrj erano nella sala lettura della libreria e mi accolsero molto cordialmente. Dopo un po’ di conversazione, ci proposero di andare in una specie di trattoria, Izba Russian Cuisine, per una cena tipica russa. Fu una serata deliziosa fra una vodka e una zuppa di pesce, shashlik e bliny. L’indomani era domenica e questi amici sarebbero stati liberi da impegni lavorativi. Si misero a nostra disposizione per condurci in posti caratteristici e inusuali. Già Emilia mi aveva fatto visitare le tipiche bellezze di San Pietroburgo, e, avendo il tempo, desideravo vedere altro. Andammo a visitare la Torre cifrata, detta Torre dei Grifoni, risalente al XVIII secolo, che fu abitata, secondo la leggenda, dal dottor Pel’, alchimista. Si racconta che costui scoprì il codice dell’universo, e lo espresse con numeri. Questo codice doveva servire a proteggere le creature mitologiche dentro la Torre. La particolarità consiste nel fatto che quasi ogni mattone della Torre riporta un numero. Gli studiosi però non sono riusciti a decriptare queste cifre. Per vedere questa Torre fummo costretti ad entrare in un cortile, perché era impossibile vederla dall’esterno. Certamente trovai quel luogo suggestivo e misterioso.
Nel frattempo, Antonio mi mandava tanti messaggi affettuosi e mi telefonava spesso, ad orari strani per via del fuso orario.

Mi sentivo felice, allegra, vivace. Legai con quegli amici russi. Nei giorni successivi mi scarrozzarono di qua e di là. Al mercato delle pulci Udelka, che divertimento! Sono letteralmente impazzita davanti a tutti quegli oggetti: pezzi di antiquariato con vecchie macchine fotografiche, antichi binocoli e svariate altre cose, e poi, nelle bancarelle di artigianato, con le deliziose scatole di legno intagliate e laccate, le bamboline matrioshki, gli strumenti musicali, i gioielli di ambra, le uova di smalto. Che dire poi delle bancarelle di abbigliamento, con colbacchi di pelliccia, maglioni lavorati a mano, costumi russi coloratissimi. Emilia mi diceva: “Sofia, prova questo, e poi quest’altro”. E io, senza alcuna vergogna, indossavo sopra i miei vestiti alcuni sarafan rossi, bellissimi. Andammo anche col battello lungo la Neva, e poi a fare shopping sulla Prospettiva Nevskij, e ancora in alcune stazioni della metropolitana particolarmente artistiche, come quella di Avtovo, sulla linea rossa, con marmi decorati e colonne imponenti e con il suggestivo mosaico dell’assedio di Leningrado. 

Intanto le notti bianche si stavano avvicinando. Da lì a poco sarei partita, i miei figli volevano assolutamente che li raggiungessi a Londra. Del resto, il lavoro su Dostoevskij l’avevamo completato.
E con Antonio? Passarono due mesi prima di poterci rivedere.

Ho sempre amato il crepuscolo con le sue infinite sfumature di colori. Mi fa pensare alle sfumature della vita, delle emozioni, dei sentimenti, delle espressioni di un viso, dei comportamenti umani. Non sono mai stata per il bianco o il nero, mi hanno sempre appassionata le situazioni indeterminate, che possono evolvere e mutare. Mi danno speranza. Mentre tutto ciò che è definito, circoscritto, mi dà un senso di soffocamento e anche di tristezza. Se da un canto le cose fisse, (per esempio, un lavoro fisso, un ordine fisso d’impostare il quotidiano, le abitudini, e così via…), danno a molti un senso di sicurezza, a me bloccano il senso di libertà. Mi piace il divenire, il mutare, l’atto della trasformazione. Del resto, cos’è la vita se non una continua trasformazione? Le variazioni di colore del cielo, degli edifici, dell’acqua, alle quali assistetti a San Pietroburgo in quegli ultimi giorni di maggio, durante le notti bianche, mi regalarono tanti spunti di riflessione ma anche puro incanto, magia. Il freddo e tenebroso nero della notte invernale pietroburghese era quasi sparito e lasciava il posto a quella luce lunga e morbida, portatrice di rinascita. Si assisteva a un brulichio di vita incredibile dappertutto e fino a notte inoltrata. Musica, voci, colori, profumi si diffondevano nelle vie affollate.

La penultima sera, prima della mia partenza, andammo con i cari amici pietroburghesi in un centro di aggregazione culturale, Loft Project Etagi, un ex panificio diventato un ritrovo molto frequentato dai giovani. In quel periodo andavano di moda i grossi capannoni in disuso riadattati a centri multiuso per mostre, atelier, caffè, conferenze, musica jazz.
Ad un tratto, un brano di Chet Baker molto struggente, mi fece pensare ad Antonio, alla prima sera quando suonò il pianoforte per me. Mi sembrò fosse passato un arco di tempo lunghissimo da allora, invece si trattava di alcune settimane. Mi incupii, quasi presangendo qualcosa di triste che sarebbe avvenuto da lì a poco. Intanto, lui era rientrato a Milano per impegni improrogabili. Nelle ultime telefonate era stato certamente affettuoso, ma mi sembrava quasi un’altra persona, troppo vivace, ciarliero, mi raccontava un sacco di cose, quasi non mi dava tempo di parlare. Mi diceva che la sua vita era cambiata da quando mi aveva incontrato, che mi era grato, che finalmente aveva ricominciato a vivere. Io però avvertivo un certo distacco. Avrei voluto sentire nelle sue parole, nel suo tono di voce, l’urgenza di volermi rivedere. Sì, mi invitò ad andare da lui, però quando gli dissi che i miei figli mi aspettavano a Londra, che non li vedevo da tanto tempo, e che noi avremmo potuto vederci dopo, lui mi rispose che aveva un altro viaggio programmato al quale non poteva rinunciare.

Le sfumature, appunto, le infinite sfumature degli stati d’animo…
Calò il buio dentro di me.
Sentivo che qualcosa era cambiato.

Passarono alcune settimane. Dopo essere andata a trovare i miei figli a Londra, ritornai a Roma, dove vivevo da circa venti anni, cioè da quando mi ero separata. Presi contatto con l’Università da cui dipendevo come ricercatrice, e presentai il lavoro su Dostoevskij, che doveva essere visionato da alcuni professori prima di essere pubblicato. Non ero tranquilla, avevo il sospetto che Antonio m’ingannasse. Mi decisi a fargli una sorpresa. Presi il treno Roma-Milano. Non volevo arrivare subito, desideravo svagarmi, guardando il paesaggio oppure osservando i viaggiatori, cosa che amavo molto fare. Man mano che trascorreva il tempo, nonostante la mia innata curiosità mi portasse al di fuori di me, nella mia mente si rinforzava quel sospetto, fino a diventare certezza. Arrivata alla stazione di Milano gli telefonai. Era già sera, una calda sera di fine giugno. Lui si mostrò contento e mi disse che sarebbe venuto a prendermi al più presto. Era bello con quel vestito di lino bianco. Ci abbracciammo.

Poi, mi portò a casa sua. Speravo in una cenetta intima, invece, dopo avermi fatto rinfrescare e cambiare, mi portò a casa di Francesco, il suo più caro amico, con il quale aveva ripreso i contatti, che festeggiava il compleanno. Mi presentò tutti gli ospiti, sorridenti e ben lieti di conoscermi. Per gran parte fu una serata molto carina con un ricco buffet, buona musica e compagnia gradevole. Ad un tratto, però, notai che una delle amiche, molto bella e affascinante, stuzzicava frequentemente Antonio, gli rivolgeva sguardi ammiccanti e rideva di gusto, e lui, seppure inizialmente imbarazzato dalla mia presenza, le rispondeva a tono, forse grazie anche all’effetto disinibente dei vari drink bevuti. Questa complicità fra loro m’infastidì a tal punto che chiesi ad Antonio di andarcene via. Mi accontentò. Durante la strada in macchina nessuno dei due parlò, si era creata una forte tensione. Arrivati a casa sua, chiesi chi fosse quella donna.

Inizialmente negò, come fanno tutti, l’esistenza di qualunque storia fra loro, disse che era una vecchia compagna di scuola sua e di Francesco, che aveva sposato un indiano ed era vissuta in India per molti anni, e che era ritornata da poco a Milano perché si era separata dal marito. Lo misi alle strette, insistendo sulla necessità di chiarezza fra noi, infischiandomene per una volta delle sfumature della vita, fino a che, irritato, mi confessò che erano stati insieme, che aveva capito, grazie a me, che poteva riappropriarsi del diritto di godersi la vita, che aveva preso gusto a sedurre e a farsi sedurre, che questo nuovo modo di vivere aveva fatto svanire il senso cupo di morte che si portava dentro dalla tragedia dell’incidente. Aggiunse che, comunque, storie come quella non erano in grado di minare la nostra ben più importante, che non tollerava scene di gelosia e che non si aspettava quella reazione da me, persona molto intelligente.
E io?
Sebbene fosse notte, me ne andai da quella casa senza dire neanche una parola. Lui fece qualche tentativo per trattenermi, ma fu inutile. Chiamai un taxi e andai in albergo. Quella notte non dormii. Non riuscivo a capire perché quella sfumatura particolare sul modo di prendere la vita, che mi offriva Antonio, non mi piacesse affatto.

Per giorni e giorni mi telefonò spesso, scriveva messaggi. Io non gli rispondevo. Nel frattempo, mi sforzavo di riprendere una vita normale dopo quella “ubriacatura” e i suoi postumi.

 Avevo diversi interessi che mi piaceva coltivare, fra cui il tennis. Un giorno, durante una partita presi una forte distorsione alla caviglia che mi fece perdere l’equilibrio e caddi a terra, sbattendo l’addome. Mi portarono in ospedale. Mi fecero degli esami di controllo e venne fuori che qualcosa non andava al pancreas. Da ulteriori controlli si scoprì un tumore. Caddi in depressione, sapevo che questo genere di tumore non lascia scampo.
Ero decisa a non farmi operare.
Emilia tentò in tutti i modi di convincermi, ma io non volevo saperne. Mi dicevo che in fin dei conti avevo vissuto intensamente fino a quel momento, che sentivo di non avere sprecato la mia vita. Fra l’altro, la parte più importante del ruolo di madre l’avevo portata a termine, i miei ragazzi, infatti, erano grandi e indipendenti.
Antonio, non riuscendo a parlare con me, telefonò ad Emilia, che nel frattempo era venuta a casa mia per darmi un po’ di conforto. Gli raccontò tutto.

A mia insaputa si misero d’accordo e il giorno dopo Antonio fu a casa mia. Mi disse che si era reso conto che non poteva rinunciare a me, alla mia unicità di donna, alla mia grande e rara capacità di ascolto. Aggiunse che il dolore che mi aveva provocato l’aveva fatto cambiare, che solo con me si sentiva a casa. In quegli ultimi due anni non aveva fatto altro che fuggire da se stesso, buttandosi nel lavoro, viaggiando da un continente all’altro, nel tentativo di schivare quel senso di cupezza che lo opprimeva e non voleva rinunciare alla possibilità di rivivere quel miracolo che l’aveva fatto rinascere stando con me, che il candore della mia anima era un punto di riferimento per lui. E ancora, che avrebbe fatto di tutto per me e che non mi avrebbe più lasciata andare. Fu di una dolcezza infinita.
Aveva già preso contatti con un luminare della scienza di un centro di ricerca di Parigi, dove stavano sperimentando nuove tecniche per sconfiggere questo tipo di tumore. Mi disse che dovevo ringraziare il Cielo per avere avuto la possibilità di scoprire presto la malattia, grazie a quella caduta per cui ero stata ricoverata in ospedale. Nella maggior parte dei casi, quando insorgono i primi sintomi è già troppo tardi. Ci avrebbe pensato lui a me, anche se sapeva, ma non me l’aveva detto, che c’erano pochissime possibilità di riuscita. Per la prima volta in vita mia, mi arresi e mi affidai totalmente a lui.

Sono trascorsi dieci anni da allora. 

Ora mi diverto con i miei due nipotini, Giulio e Pietro. Ho imparato a parlare inglese, soprattutto per loro che vivono in Inghilterra. È estate e fa molto caldo e giochiamo sul terrazzo a schizzarci con l’acqua di una piscinetta, con secchielli, innaffiatoi, bicchieri. Hanno quattro anni e mezzo ciascuno, uno è di Alessandro, il maggiore dei miei figli, l’altro è di Dario. Si è dato il caso che i due cuginetti nascessero a distanza di un mese l’uno dall’altro. Sembrano fratellini gemelli, non omozigoti però, uno è biondo e l’altro è bruno. Sono complementari in alcuni tratti del carattere, uno è calmo, tranquillo, l’altro è vivacissimo, esplosivo. Mi piace, osservandoli, individuare le caratteristiche che hanno ereditato da me. A volte, mi ricordano, ora l’uno ora l’altro, me da bambina. Che cosa bella la vita che si perpetua. Spesso, anche Antonio gioca con i bambini, si mette per terra con i mattoncini e li stupisce con costruzioni fantastiche. Per noi è una grande gioia averli qui a Milano, nella casa di Antonio.

 Infatti, dopo l’intensa esperienza parigina della mia malattia, lui mi chiese di vivere insieme e di sposarci, e da allora viviamo in questo attico meraviglioso che dà su un viale con altissimi ippocastani. I miei figli abitano ancora a Londra, e durante le vacanze mi chiedono di ospitare i loro bimbetti. Qui c’è tanto spazio e giocano bene insieme. Qualche giorno fa, Pietro, il più vivace, cercava dei fogli per disegnare, ed è entrato nel mio studio, ha aperto uno sportello della mia libreria e ha buttato giù molte carte, documenti, carpette. Il mio sguardo è andato proprio su una carpetta con su scritto “Esami Parigi”. Non la vedevo da anni. L’ho aperta, e immediatamente tutti i ricordi, piacevoli ma anche drammatici, sono affiorati.

 A Parigi mi sottoposero ad un trattamento con le cellule staminali, tecnica messa a punto in un centro della Pennsylvania. Antonio rinunciò a quasi tutti i suoi impegni per starmi vicino. Vennero a trovarmi anche i miei figli, ai quali feci conoscere quest’uomo di cui mi ero innamorata follemente, tanto da accettare quelle “sfumature” della vita, che non ero mai riuscita a tollerare prima. 

Per fortuna si piacquero e legarono subito. Parlavano dell’Inghilterra, di matematica, di fisica, d’informatica, delle ultime ricerche pubblicate, ovviamente in inglese. Anche se allora non capivo quasi niente, ero contenta che potessero affiatarsi un pochino. 

Ad Antonio avrebbe fatto piacere avere un figlio maschio e fu contento di acquisirne addirittura due. Era davvero molto affettuoso con loro. 

Mi diceva che la sua vita era diventata ricca e piena. Era sempre contento e ottimista e non lasciava trasparire mai la sua preoccupazione per la mia malattia. Nonostante avessi un aspetto non proprio attraente, mi diceva delle cose bellissime, adorava il mio sorriso e i miei occhi. Quando eravamo soli mi accarezzava e mi baciava teneramente.

 Restai in quella clinica buona parte dell’estate e dell’autunno. I medici fecero diversi tentativi ed esperimenti su di me, inizialmente senza successo. Però, un giorno, utilizzando dei marcatori di nuova generazione, si accorsero che erano negativi. Avevo vinto sul cancro? Sembrava proprio di sì. 

Durante tutto quel periodo vissuto in quella clinica, avevo fatto amicizia con gli infermieri, gentili, competenti e pazienti. Io conoscevo un po’ di francese, tanto da capirli e da farmi capire, quindi potevamo comunicare. Uno di loro, Victor, era molto divertente e mi metteva di buonumore, mentre Jeanne curava amorevolmente anche il mio aspetto esteriore, con un po’ di cipria, di fard e anche con una sottile linea di matita nera sugli occhi, dopo avermi aiutata a lavarmi. Antonio stava con me qualche ora di mattina e qualche ora di pomeriggio. Per fortuna aveva dei cari colleghi a Parigi e poteva anche appoggiarsi all’università per continuare un lavoro già iniziato. Quando stavo benino Antonio mi aggiornava su tutto ciò che accadeva in Italia e nel mondo, discutevamo di politica, di problemi esistenziali, mi raccontava episodi della sua vita. A volte mi leggeva pagine di romanzi, altre volte giocavamo a scacchi. Era bravissimo. Quelle partite erano lunghissime e richiedevano grande concentrazione, quindi ad un certo punto lasciavamo tutto com’era e riprendevamo l’indomani. Qualche volta l’ho anche vinto, o forse, lasciava che vincessi. Quando ero troppo stanca mi faceva ascoltare della musica. Fu tanto amorevole e paziente con me, lo devo a lui se ora sono qui a scrivere. Alle prime piogge avvicinava il letto alla finestra perché potessi guardare fuori, e quando potevo alzarmi mi accompagnava nel giardinetto della clinica.

 Un bel giorno mi dissero che potevano dimettermi. Avevo ancora bisogno di rimanere a Parigi per altri controlli, quindi ci fermammo ancora un po’, ospiti in un piccolo appartamento che un suo amico aveva messo a nostra disposizione. 

Era già autunno. Le giornate si erano accorciate, i colori delle strade erano cambiati, apparivano rosseggianti per le foglie pronte a lasciare gli alberi, e si avvertiva la prima aria frizzante. In quei giorni passeggiavamo spesso nei parchi, già ricoperti di foglie secche, o sui lungosenna. Le luci morbide dei lampioni, riflesse sulla Senna, erano molto romantiche, e le sagome della Tour Eiffel, di Nôtre Dame o di altri edifici, che si stagliavano nel cielo all’imbrunire, molto suggestive. E che dire delle bancarelle dei libri usati, les bouquinistes, i bistrot, il profumo delle prime caldarroste, quello delle crepes? Ho un ricordo dolcissimo di quel periodo, quasi una nuova luna di miele. A me piaceva molto il Quartiere Latino, Saint Germain des près, con i suoi artisti di strada e tutti quei giovani universitari della Sorbona che animavano le strade. Una sera mi portò in un antico Caffè “Le Procope”, simile a quello di San Pietroburgo, e suonò il pianoforte ancora una volta per me. Si creò una bellissima atmosfera quando, alle note di Antonio, gli ospiti si misero a cantare “La vie en rose” e “Les feuilles mortes”. Quella sera mi confidò di sentirsi finalmente un uomo completo, in armonia con il mondo e con se stesso e di avere recuperato la sua sfera emotiva, il tutto grazie al nostro incontro, stranissimo, curioso, in un aeroporto. Incontro cosi potente da imprimere una nuova direzione alle nostre vite. 

Da allora ci siamo sempre amati moltissimo. Ci vediamo spesso con Francesco e con altri amici. Emilia si è decisa a sposarsi con Ivan, e vivono a San Pietroburgo. Con loro c’incontriamo almeno due volte l’anno. Quella donna che era venuta dall’India, se n’è tornata in India.

 L’altro giorno Antonio ha fatto degli esami di controllo… e pare…che qualche valore sia alterato…

 Ma, questa è un’altra storia.

 

P.S.

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